Eyewitness Chiara Lagani in Italian, about Polizia Municipale

Chiara Lagani wrote this text about Lecture For Every One for the Polizia Municipale in Santarcangelo.
14/07/2014

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“Questo non è un discorso per chiunque, ma è un discorso per ciascuno di voi”. Mi impressiona immediatamente nel discorso questa frase pronunciata da Sara Masotti, l’attrice che qui ha lavorato con Sarah Vanhee alla versione italiana di questa performance. “Chiunque” è il tutti generico, la comunità indeterminata; “ciascuno” è la comunità di individui precisi. “Chiunque”, mi sembra adesso, vuol dire “tutti quelli che potrebbero capitare di fronte a me” e si porta dentro una specie di casualità o passività; “ciascuno” invece è “tutti voi che ho convocato qui”, “ciascuno” è attivo, è attore. Per parlare di comunità a una comunità, per parlare a tutti, forse qui si dice, devo prima aver parlato direttamente a ognuno, e se qualcuno resta fuori, quel “tutti” non sarà tale. Come se Sara (e Sarah) dicesse: “adesso questo discorso lo facciamo assieme, io e voi, in questo tempo e in questa stanza. Lo facciamo assieme, vi dico, non abbiate timore: sono qui con voi.”

L’ARRIVO IN COMUNE

Poco fa ci siamo recati al Comune di Santarcangelo: Sara, Linda, Monica e io. Ci dicono di aspettare e ci sediamo tutte in fila su due panche. È strano, mi sembra di attendere per qualcosa di simile a una visita medica o un esame. Parliamo tra noi del più e del meno. Anche Sara, che di lì a poco andrà “in scena”, gestisce questo tempo di attesa con apparente naturalezza, quasi l’entrata in quella strana dimensione di quotidianità non quotidiana, che forse è proprio la chiave di questa perfomance, iniziasse da lì, o addirittura sia iniziata da prima, quando abbiamo attraversato la piazza affollata dalle bancarelle del mercato. Dopo poco arriva il Comandante della Polizia, che è poi colui che ci introdurrà nella stanza e che ha già preventivamente avvisato i suoi uomini dell’arrivo di qualcuno che dirà loro alcune cose importanti legate all’idea di società, di comunità, di vita collettiva. Quegli uomini sanno, mi dice Linda poi, che si tratta di un progetto artistico. Nessuno ha detto loro molto di più. Né sui contenuti di questo discorso, né tantomeno sulla sua forma. Il Comandante ci chiede di aspettare in una stanza per alcuni minuti: nella sala dove i suoi uomini si dovranno raccogliere c’è inaspettatamente qualcuno, e lui deve risolvere la faccenda. Scompare e dopo poco riappare. Ecco che entriamo: Sara, Linda, io.

LA  STANZA

Attorno al tavolo ovale della sala della Giunta ci sono quindici, forse venti uomini in uniforme. Tutti indossano la divisa eccetto due, forse tre, tra i quali una è una donna che vedo solo di profilo e di cui mi colpisce da subito l’attenzione costante e protesa verso il discorso e il ritmo regolare del respiro. Solleva e abbassa lo sterno nel respirare in un’onda ritmica che ai miei occhi diventa a poco a poco una parte importante del discorso. Di questi uomini in uniforme (ci sono solo due donne tra loro) mi colpiscono soprattutto le mani, che loro tengono per lo più appoggiate sul tavolo, conserte, oppure si accarezzano la barba, o si sostengono il mento. Se corresse parallelo il discorso di quelle mani, esso sarebbe pregno di tutti i colori che il discorso di Sara sta disegnando in loro e in certo senso attorno a loro. Si muovono sempre quelle mani: per imbarazzo, per emozione, per nervosismo oppure perché si chiedono che fare, dove potere mettersi. Improvvisamente, infatti, come conseguenza diretta del discorso, il corpo ha preso un rilievo speciale: a ognuno in quella stanza è ora possibile percepire l’ingombro, il peso, il volume della propria presenza. Io stessa ho una strana percezione della mia, e sposto il peso da un piede all’altro apparentemente per guardare meglio ognuno di quelli che sono là, in realtà perché anche il mio corpo inizia ad avere una certa percezione emozionata e dissonante di sé, del proprio agio e disagio. Prima di tutto il discorso si rivolge ai corpi, li appella perfino con apostrofe letterale e diretta nominandoli (“corpi, volti…”). Lo fa per due volte, in maniera rilevante, non casualmente mi pare, all’inizio e in conclusione.

Sulla tavola sono appoggiati alcuni oggetti che appartengono a questi uomini: occhiali da sole, telefoni cellulari, cartelline, bottiglie d’acqua, chiavi. Abbandonati lì, testimoni inerti del discorso, mi paiono a tratti dotati di una forza paradossale: come se la loro vita, legata all’uso, fosse qualcosa di lontano, parallelo, remoto, anche se è proprio la vita quotidiana lo spazio principale di questo discorso. Ci sono anche gli oggetti d’ordinanza: distintivi, manette, pistole. Pendono dai loro fianchi, campeggiano sul loro petto e hanno una forza rifrangente speciale soprattutto nei confronti di certe parole del discorso: libertà, potere, cura… Come si può profferire un discorso fatto di simili parole alla presenza di questi oggetti?
Alla fine del discorso Sara ci dirà che è stato faticoso. “A causa delle loro facce, dure”, dice in principio. Sia Linda che io, però, non abbiamo percepito durezza in quei volti. “Forse è perché indossavano quelle uniformi”, si corregge allora. A posteriori mi viene da pensare che quegli oggetti non siano estranei alla sua fatica: come si può parlare tranquillamente alla presenza di oggetti che funzionano come lenti di ingrandimento o deformanti per tutte le parole che dici?

Non c’è molto spazio nella stanza eccetto quello occupato dal discorso e da questi uomini. Il discorso occupa tutto quanto lo spazio. Forse per questo i loro movimenti sono piccoli, quasi riservati, molto rispettosi, pieni di pudore, perfino quelli degli occhi. La maggior parte di loro guarda Sara. Alcuni guardano in basso. Solo poche volte si guardano tra loro. Un sospiro. Qualche accenno di sorriso. D’un tratto uno annuisce. Uno si gira all’improvviso verso Linda e verso me e ci guarda per un attimo. Non dicono nulla, tranne un piccolo commento divertito a mezza voce tra due di loro, rubato, fugace, quando il discorso tocca una questione legata alla perversione erotica di un ragazzo per i tappeti persiani. Ho una stranissima impressione. Io so che loro sanno di assistere a un discorso, ma sapranno che io sono là per guardarli più fitto che posso, per carpire anche quel che sta subito attorno al discorso? Quegli uomini adulti, lì riuniti, da me spiati nelle loro espressioni, nei loro tic, con le uniformi che rappresentano il loro ruolo, il loro personaggio nella vita comune (che in fondo è proprio e anche la vita di cui Sara parla), mi sembrano all’improvviso la parte più teatrale del discorso, come se Sara fosse il contenuto di realtà e quegli uomini invece la parte finzionale. D’un tratto mi appare l’aspetto infantile, fanciullesco del loro stare in quel luogo, riuniti attorno a un discorso che parla della vita in comune, dell’altro, della libertà, del denaro, del potere. Sono un gruppo di adulti resi a tratti bambini dalla serietà di un discorso che è scabroso nella sua solenne semplicità e che loro sono là per ascoltare, come si fa con le favole più dure.

L’ATTRICE

Al centro di tutto c’è Sara. Sta in piedi, tra le mani ha alcuni fogli su cui ogni tanto fa scendere lo sguardo, per farlo risalire subito verso le cime aguzze del discorso. La sua voce è calma, decisa, pacata, ma dotata di una sottile furia nascosta, sepolta in uno strato basso del suo parlare. C’è una vibrazione speciale, fragile, emozionata, nel modo che ha di rivolgersi agli uomini lì raccolti, qualcosa di teso e sottile che credo funzioni da ponte, da leva, da fune per la loro attenzione. Non c’è nulla di seduttivo nella sua retorica, è quasi duro (o forse solo così diretto da parer duro) il modo in cui lei estrae le idee principali del discorso, eppure c’è una forma di dolcezza nel toccare ognuno di loro con lo sguardo, e con la voce. A volte li interroga: “pensate di avere più soldi di me? … Adesso immaginate una catastrofe… “ e attende che rispondano. Questo discorso è fatto anche di silenzio: isole compatte, brevi momenti di spietata densità in cui Sara dà tempo agli uomini di formulare possibilità, che alla fine non saranno pronunciate ma che in certo senso vibrano e si intrecciano in quel silenzio. Nel silenzio Sara li guarda e muove impercettibilmente la testa in su e in giù, come ad annuire ritmicamente, a comporre una serie di piccoli sì: “se parli ti ascolterò, dico a te, sei tu che intendo”. Nel silenzio si rapprende anche molto altro: il tempo del discorso, la possibilità di dire qualcosa o di tacere, la noia, l’esitazione, lo stupore, e anche, così mi pare, la distrazione, i grumi di pensiero che portano via gli uomini da quel luogo. “Perché siamo qui? Chi è lei? Cosa vuole da noi? Cosa farò questa sera? Ho fame.” … Tutto questo è parte del discorso. Ho la netta sensazione che la forza del discorso, per quanto il suo testo sia bello e chiaro, dipenda solo e totalmente da Sara, dall’alchimia sottile del suo guardare, dal suonare della sua voce, dal suo centrare o fallire alternativamente la relazione con quegli uomini che per quindici minuti, forse, la ascolteranno. Molto della partita certo sta là: arrivare a toccare, anche solo per un attimo, la loro nervatura scoperta, agganciare uno sguardo oppure perderlo per sempre, non riuscire più a toccarlo, e poi raggiungerlo ancora e infine aggrapparcisi.

IL DISCORSO

Questo discorso è costruito in maniera piana. Questa mattina Sarah Vanhee mi ha parlato a lungo del linguaggio di questo discorso: quando lo ha composto voleva che fosse semplice, in modo tale che le parole non facessero da muro al suo senso. Ha costruito un testo che io, però, non definirei proprio semplice, ma, appunto, piano. Piana è una superficie molto forte capace spesso di sostenere un gran peso; a percorrerla non sei costretto ad affrontare grandi dislivelli. In retorica sta per “facile”, che mantiene il ritmo naturale della conversazione, “discorsivo”. Discorsivo è un aggettivo che mi è sempre parso strano, un aggettivo derivato da discorso: è evidente che si pensi che il discorso per poter funzionare, per essere ascoltabile deve essere dotato di una qualità piana. Ma che significa tutto ciò? In questo discorso di fatto le parole sono enormi. Ho già detto: libertà, potere, denaro, catastrofe, cura… Non v’è nulla di semplice in queste parole che paiono spalancare di continuo mondi etici abissali. E allora? Il legame sintattico che intercorre tra loro le compone in modo da farci sembrare quel discorso semplice, fatto di una sola o di poche pieghe, mentre quel discorso è in assoluto complesso, di pieghe ne nasconde infinite. Così in retorica antica si parla delle figure: esse sono perfette quando scompaiono. E così con lo stesso stile e con lo stesso gesto quel discorso potrebbe parlarci del tempo, di un cane che passa, di un cibo delizioso. Non a caso nel discorso si incastonano due aneddoti – per il resto esso è fatto di apostrofi anche dure o di questioni morali. Questi aneddoti sono in apparenza connessi con la vita possibile di tutti o almeno con la vita degli altri. Ne sono protagonisti Sara e un taxista, Sara e un ragazzo. Eppure questi aneddoti che dovrebbero fornire un terreno empirico a tanti dei fili tesi del discorso, in cui forse sarebbe possibile “riposarsi” un po’, sono i soli due punti in cui questi uomini si guardano, ridacchiano, parlottano tra loro con divertito imbarazzo, suggerendomi l’idea che in realtà in questi punti la faccenda si faccia più impervia, rompendo a tratti il sottile velo del pudore che il resto del discorso sa creare.
C’è anche in questo discorso, insidiato irrevocabilmente, in agguato, un certo rischio moralista: mi sfiora per lampi il pensiero che questo discorso in certe sue parti potrebbe pronunciarlo anche un prete, un padre di famiglia, un predicatore… è molto importante credo questo dubbio che mi assale perché il moralismo implicito del discorso è un ingrediente molto delicato nella pratica del discorso pubblico, se non lo accogli, se non lo accetti, se non sai che c’è sempre un po’, lui ti frega. L’antidoto alla deriva moralista del discorso, ancora una volta qui mi pare l’attrice: Sara. La sua maniera di muovere l’aria intorno, la sua imperfezione, la sua forza, la fugacità di certe macchie di luce che lei crea.
Mi accorgo scrivendo che non ho ancora detto molto dei contenuti di questo discorso, o almeno non l’ho fatto in maniera dettagliata. C’è una specie di pudore infatti nel fissarli in pagina, se non per bagliori diffusi da parte di chi come me è stato testimone di un fatto affidato al momento in maniera così fiduciosa. Quel testo, non a caso, non viene dato a nessuno in forma scritta, se non all’attrice che lo interpreta. Né i testimoni, né le piccole comunità che si raccolgono intorno ad ascoltare potranno rileggerlo o fissarlo in un modo diverso e più duraturo nella loro memoria. Credo che questo abbia un senso speciale che mi rende refrattaria a registrare su una pagina quei contenuti che intrattengono un rapporto molto complesso con l’idea di oralità e di quella complicità provvisoria ma concreta che forse è parte oggi dell’unica idea possibile di comunità.

LA COMUNITÀ

Una finestra è aperta nella stanza. Per tutto il tempo il vociare del paese raccolto nella piazza (come ho detto oggi è giorno di mercato) ci raggiunge e si mescola sommessamente al discorso, agli oggetti, al silenzio, ai gesti, a tutto il resto. Alla parete è appesa un’immagine che raffigura la piazza, Santarcangelo, quel paese che là fuori oggi brulica e qua dentro invece tace in ascolto:  piccolo gruppo adulto in uniforme raccolto circolarmente, concentrato in questo discorso che ci parla della nostra vita nella comunità.

Sara li guarda ancora una volta, l’ultima, e li ringrazia. Il discorso è finito, o forse è appena iniziato.

Chiara Lagani